Ray Dalio and the New World Order

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Un troppo grande fratello

Considerazioni sul caso Facebook-Cambridge Analytica

Fonte immagine: Jim Watson/AFP/Getty Images

Ad inizio 2014 il centro di ricerche psicometriche dell’Università di Cambridge dispone online su Facebook di una app che raccoglie dati a scopi di ricerca. Questa app ha dei permessi particolari: se l’utente X la scarica, possono essere raccolti non solo i dati di X, ma anche tutti i dati condivisi dagli amici di X sul social network. Un’azienda non molto famosa, e non ancora chiamata Cambridge Analytica, si mette in contatto col centro di ricerche per poter accedere a questi dati. Si tratta di un’azienda che sta entrando nel business della data analysis e della pubblicità mirata applicata alle campagne elettorali, in particolare in America e Regno Unito, e per questo sta cercando di creare un grosso database dell’elettorato americano e di quello inglese.

Sin dal 2013 il CEO di Cambridge Analytica, Alexander Nix, è in contatto con Stephen Bannon, direttore di Breitbart, sito di riferimento dell’alt-right americana. Bannon sta cercando di portare la sua battaglia culturale fin dentro la campagna elettorale a stelle e strisce, e cerca strumenti per combattere questa battaglia anche sui social network. È lo stesso Bannon a far incontrare Nix e Wilye con il magnate americano Robert Mercer, uno degli uomini più ricchi del mondo, deciso a diventare un punto di riferimento della destra americana. Negli stessi mesi in cui la app di Kogan è all’opera sui profili di centinaia di migliaia di utenti, Bannon, Nix e Wilye convincono Mercer a finanziare il loro progetto: 15 milioni di dollari.

È a questo punto che Cambridge Analytica (CA) prende questo nome e installa la sua sede legale a Cambridge, col preciso intento di darsi un’immagine autorevole. I primi test vengono fatti sulle elezioni di mid-term americane in estate-autunno 2014. Nel 2015 il candidato alle primarie democratiche Ted Cruz diventa cliente di CA. Nel 2016 Nix convince anche i responsabili della campagna di Trump ad utilizzare i loro servizi.

Insomma, quella che emerge è una situazione in cui almeno fino al 2014 Facebook si è espanso anche grazie alla vendita non esplicitamente dichiarata dei dati accumulati sulla piattaforma. Il modello di business della società si basava sulla proliferazione delle app, sulla creazione di uno spazio che contenesse la maggior parte della vita virtuale degli utenti, e alla big-F andavano (e continuano ad andare) il 30% di ogni pagamento fatto attraverso software di terze parti. In gioco c’è il modo di distribuire i dati, e attorno a questo i dirigenti di Facebook tentavano (e continuano a tentare) di definire dei modelli economici e politici per una piattaforma globale, unica del suo tipo nella storia.

Fare una genealogia dei differenti sistemi di organizzazione della piattaforma è un obiettivo ben oltre la portata di questo articolo, ma sicuramente con l’interruzione dei permessi speciali alla fine del 2014 qualcosa cambia: il mercato dei dati degli utenti viene marginalizzato, e il core-business si sposta probabilmente sul mercato pubblicitario mirato.

Un aspetto emerso dall’intervista di Wilye è stato poco approfondito: degli 800mila dollari investiti nell’app del prof. Kogan, neanche un centesimo è andato all’accademico (che come ricompensa si è solo tenuto una copia del database), invece la maggior parte di questi soldi sono stati investiti nel ricompensare (1–2 dollari) gli utenti che scaricavano l’app e partecipavano alla ricerca. È grazie a questo pagamento se in solo un mese CA ha ottenuto un database così grande. Si intravede in meccanismi come questo la possibilità che Facebook diventi un mercato delle informazioni, in cui addirittura gli utenti possono direttamente accedere a parte della ricchezza estratta. Ogni analisi delle scelte di Zuckerberg deve tenere in conto questa evoluzione possibile (e oggi resa più improbabile) del significato di “utente” della piattaforma.

In questa situazione, cos’è esattamente la privacy? Ci sono due aspetti del problema. Da un primo punto di vista la privacy è un modo di gestione dei dati e della loro valorizzazione. Un regime di attenzione alla privacy tende a creare un monopolio della raccolta dati da parte di chi detiene la piattaforma, o per meglio dire a disincentivare l’uso della piattaforma come luogo di scambio dei dati, favorendo l’altra funzione centrale dei social network: la possibilità di raggiungere gli utenti in maniera mirata.

Lo “scandalo” Cambridge Analytica ha sollevato uno “psicodramma” democratico, diverse testate giornalistiche e alcuni governi, in particolare quello britannico e quello americano, hanno chiesto a Zuckerberg di riferire su quanto avvenuto. Il tutto si è concretizzato nelle deposizioni delle “talpe” Wilye e Parakilas al parlamento inglese, ed in quella di Zuckerberg di fronte al congresso USA, nonché nel cambiamento di alcune delle policy del social network.

Ma davvero la democrazia rappresentativa è stata controllata, pilotata o hackerata? Questa domanda può avere una risposta superficiale, un semplice “no”, ma anche aprire a domande più interessanti e profonde: cosa significa “controllare” o “pilotare” un processo democratico?

Va totalmente sfatata la narrazione secondo cui alcuni eventi elettorali eclatanti degli ultimi tre anni (in particolare la Brexit e l’elezione di Trump) possano essere spiegati attraverso l’uso di particolari strumenti o tecniche di analisi dati. Nonostante questo le tecniche stesse ci dicono qualcosa sull’evoluzione dei processi politici in atto, perché ogni tecnica è l’unione di strumenti (formali o materiali) e di “modi d’utilizzo”, questi ultimi espressione di specifiche griglie di lettura del reale, quanto di più lontano ci sia da una presunta neutralità degli algoritmi.

Lo stesso Wilye descrive quello che facevano come un articolato inganno:

Contro ad una visione neutrale per cui una “tecnica” viene applicata su alcuni “dati grezzi” ottenuti sui social network, si deve ribaltare il punto di vista dicendo che non esiste nessun dato grezzo, che la stessa raccolta dei dati è parte della comunicazione. I messaggi politici proposti agli utenti dagli algoritmi sono il centro dell’ipotesi trumpista, ciò che permette di misurare l’efficacia degli algoritmi utilizzati, e non una variabile tra le altre. Lo stesso modello degli OCEAN è chiaramente una teoria psicologica e politica dei soggetti, un terreno di battaglia in sé, e non un retroterra neutrale su cui è possibile costruire qualsiasi ipotesi elettorale.

Dietro ai titoli dei giornali, alle testimonianze in parlamento, ai crolli in borsa prontamente recuperati dopo pochi giorni, è difficile farsi un’idea di cosa sia realmente accaduto attorno alla vicenda Cambridge Analytica e più in generale alle accuse di irregolarità nelle pratiche di Facebook. Forse perché mai come in questo caso è la gestione dell’informazione stessa ad essere il campo di battaglia. Non si può approfondire il racconto di questi eventi senza tenere in conto che tra i big del web ed i grandi gruppi editoriali è in atto uno scontro per la possibilità di definire cos’è una news: se fino a pochi anni fa i giornali avevano un controllo molto forte sulle categorie di “vero”, “autorevole” e “accettabile”, l’esplosione dei social network ha cambiato le carte in tavola.

Oltre ad essere un terreno di battaglia, gli algoritmi diventano sempre di più l’oggetto stesso dello scontro politico in atto.

[1] M. Fisher, Realismo capitalista, traduzione di Valerio Mattioli, Nero Editions, 2017.

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